Siamo sorpresi e scossi. Siamo commossi. Ed è naturale. Anche se i libri di storia dicono altro, è la prima volta – a memoria d’uomo e di cristiano – che un Papa «si dimette ». E senza dubbio è la prima volta che il mondo può ascoltare in diretta questo annuncio nell’antico idioma della Chiesa, il latino, e può vederlo propagarsi istantaneamente in tutte le possibili lingue dei popoli e della modernità. Certo, Benedetto XVI ci aveva invitato per tempo in modo aperto e sereno, a considerare la ragionevolezza cristiana e umana di un simile gesto. Ma un conto è considerare una evenienza, tutt’altro è misurarci con un evento. E a questo siamo. Trema la mano a scriverlo, e non di paura, ma di un incredulo eppure come già consolato dolore e di una strana gratitudine in cerca di conforto.
La nuova e straordinariamente umile scelta di Papa Benedetto – la volontà di consegnarsi dalla fine di questo febbraio a un servizio a Dio e ai fratelli fatto di silenzio, di nascondimento e di preghiera – completa (e, poco a poco, ci sarà sempre più chiaro) la decisione con la quale Joseph Ratzinger, servitore coraggioso e già anziano della parola limpida e profonda, accettò otto anni fa l’elezione al soglio di Pietro, chinandosi per amore alla volontà di Dio e alla richiesta della Chiesa e inchinandosi a noi tutti nel presentarsi come «umile lavoratore della vigna».
Ora, nel cuore di quest’Anno della Fede, l’umiltà e la grandezza di Pietro si manifestano in una maturata decisione di ritiro per sé e di indicazione alla comunità dei credenti della via dell’elezione di un più vigoroso «servo dei servi di Dio». Inevitabile tornare con la mente, e con identica commozione, a un altro distacco e a un altro grande ammaestramento che – sembra appena ieri – si manifestò nell’interezza del cammino infine faticoso e della voce infine spezzata di Giovanni Paolo II. Due facce distinte e complementari dell’umiltà evangelica ci sono state mostrate in esemplare sequenza in questo avvio del terzo millennio cristiano. E oggi, come ieri e come sempre, uno ‘scandalo’ e un ‘segno’ ci pongono di fronte e dentro a un avvenimento che tocca l’anima di ognuno, che segna la storia di tutti, che interroga e sprona in modo persino rivoluzionario la grande comunità di fede cattolica e parla a ogni altro credente in Gesù di Nazaret.
E, così, eccoci qui. Agitati più che mai da attese, in questi giorni davvero per noi inattesi. Assediati di domande, in questo tempo di aspre sfide e di accattivanti illusioni che è già per uomini di fede e di scienza una grande e assillante domanda. Eccoci qui, di fronte alla croce di Cristo e a un insegnamento del Papa che ci ricorda nel modo più disarmante e coinvolgente la nostra responsabilità e la nostra limitatezza. Eccoci qui, a mani aperte, ma non vuote. Come se qualcosa di prezioso ci fosse stato tolto e offerto con uno stesso gesto. E forse in tanti, in questo freddo giorno di febbraio dell’Anno del Signore 2013, capiamo di più e meglio che proprio niente ci appartiene per sempre, ma se apparteniamo a Lui, nulla e nessuno ci è tolto e tutto ci è dato. Siamo sorpresi e scossi, sì. Siamo commossi. E il cuore ci aiuta a capire meglio la scelta del Papa, e a dirgli con fiducia e speranza un nuovo grazie. Grazie perché ci ha insegnato, e continuerà a farlo, con intensità e forza uniche il legame vitale tra fede e ragione, tra la vita degli uomini e le donne di questo tempo e la verità sull’uomo e sulla donna di ogni tempo. Grazie perché ancora una volta Benedetto ci ha detto chi è Pietro e come serve l’unico Signore.
Editoriale di Avvenire del 12 febbraio 2013 a cura del direttore Marco Tarquinio