Scoperta nella notte: non siamo soli

Quando è sbucato dalla stazione del metrò nell’afa del mezzogiorno, lo zaino sulle spalle e la faccia stanca, l’ho guardato e qualcosa in lui mi è sembrato impercettibilmente diverso. Aveva la faccia di uno che ha fatto fatica, e ha avuto caldo e sete, e sonno, su pavimenti duri, o sull’asfalto bollente di un piazzale; e però sembrava stranamente calmo, e più forte; un po’ meno ragazzo, e più uomo.
Prudentemente, come si fa con quegli amati stranieri che sono i figli adolescenti, ho sondato che aria tirava nei pensieri di mio figlio, reduce da Madrid. «Come è andata?».
Di risposta, scaricando con un tonfo il grosso zaino nel bagagliaio dell’auto: «Bellissimo».
Ma, e il caldo? E i 40 gradi su quel piazzale? (tu, penso, che a maggio vuoi già accendere il condizionatore). Risposta: «Mi sono abituato. Adesso, per esempio, il caldo non lo sento» (fuori, ci sono 35 gradi). Occhiata in tralice, ancora, della madre, perplessa. Poi, strano da parte sua, lui racconta: le notti in sacco a pelo in una scuola, o in pullman, e le code per il bagno, e il sole torrido sul piazzale dei Cuatro Vientos. E poi quel temporale, e l’acqua e il vento addosso come una benedizione su due milioni di ragazzi accaldati. «Deve essere stato bello», dico. «La cosa più bella – continua lui dopo un istante – è che il Papa in quella tempesta non se ne è andato. Che è rimasto con noi».
Taccio ora, come si fa quando ti è stato detto qualcosa che la memoria ascolta e già registra nell’archivio delle cose da non dimenticare. «C’era il sole, e eravamo andati tutti senza cerate e giacche a vento – dice mio figlio – il temporale è scoppiato improvviso, ci siamo riparati con quello che abbiamo trovato. Poi per la notte ci siamo costruiti una specie di capanna di teli, per dormire all’asciutto. Io, ho dormito bene».
Sorrido fra me: figlio mio schizzinoso, che storci il naso se la Coca Cola non è ghiacciata e il bagno di un bar non riluce di pulito, che cosa ti ha reso belli questi giorni sudati, scomodi, polverosi? L’essere insieme a tanti, già amici, oppure sconosciuti in cui hai ritrovato con stupore che qualcosa di forte, pure fra estranei, vi lega. E l’andare verso qualcuno, e non a caso, non a zonzo nell’annoiato arbitrio di tante vacanze senza una meta. E poi, dopo la fatica – il gusto della fatica, che a tanti della tua età è stato tolto – la faccia di un padre ad aspettarvi. Un padre vero, che indica una strada e un destino: più grande di ogni crisi e barcollare di Borse, più certo di ogni umano progetto di rivoluzione o giustizia. Disegno tracciato su una roccia, mentre tutto attorno sembra malfermo, terra sdrucciola sotto ai piedi.
«Mi sembra d’avere scoperto che non sono solo», si lascia andare a dire mio figlio, dopo un momento di silenzio. E ora capisco in cosa mi sei sembrato, dalla prima occhiata, leggermente cambiato: più fiducioso, più calmo – meno spaventato, con i tuoi diciotto anni, da tutte le minacce che gridano dai titoli dei giornali. «Non sono solo». Quei due milioni di ragazzi con te; e un temporale, e quell’uomo che resta mentre il vento scompagina le sue vesti bianche; mentre i ragazzi costruiscono ripari di fortuna, e rimangono, nella notte, insieme. Ha il sapore del simbolo il temporale dei Cuatro Vientos, che rimarrà nella memoria di quei ragazzi.
Sotto alla pioggia e al vento, insieme, testardi; mentre quell’uomo di tanto più vecchio resta con loro, e poi li benedice.

di Marina Corradi (da Avvenire, 26 agosto 2011)