NON DI QUESTO IL PAESE HA BISOGNO

Il testo con il quale il governo intenderebbe disciplinare i “diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi” ha infine preso forma, presentato con un misto di sollievo ed enfasi dai suoi promotori. Proprio come se si fosse scampato un pericolo, percepito come tale anche da chi negava risolutamente che ci si stesse avventurando su un terreno arduo e di assoluta delicatezza. E singolare sollievo lo ha mostrato pure chi, avendo letto la prima stesura, temeva una semplice replica di quell’improponibile testo. Ma, dispiace dirlo, le annotazioni di sollievo terminano qui, perché
il documento ufficializzato giovedì sera dal governo, lungi dal rassicurare, offre motivi serissimi di preoccupazione per il Paese. La preoccupazione nasce da ciò che il disegno di legge afferma e prevede, ma anche – e non di meno – dalla tendenza che rischia di incentivare sul piano delle dinamiche culturali e sociali. Un duplice impatto negativo, che motiva gravi riserve di fondo e impone un fermo e severo giudizio.
Se ci è concesso – e davvero non capiamo perché qualcuno continui a sostenere che a questo giornale non dovrebbe essere concesso – vorremmo qui sempre lealmente rilevare qualcosa di ciò che non convince e dunque allarma nel testo che il governo ha deciso di portare dinanzi al Parlamento. A cominciare dal fondamentale articolo 1, a proposito del quale già si mitragliano interpretazioni diversissime, in un ventaglio che va da un generoso minimalismo
all’ostentata forzatura (in senso pacsista) delle forme lessicali adottate.
Un’ambiguità a cui contribuisce certo che si sia deciso di specificare – con scelta niente affatto imposta dal programma dell’Unione – che le persone protagoniste della convivenza devono essere «unite da reciproci vincoli affettivi». Ora, se è del tutto evidente che i vincoli affettivi nell’esperienza e nel linguaggio comune non escludono anzi ricomprendono le finalità di assistenza e solidarietà, non è tuttavia vero il contrario, anzi è perfettamente possibile immaginare unioni con finalità solidaristiche i cui soggetti non siano però uniti da vincoli di natura affettiva. Perché, allora, non prevederle? Ma l’ambiguità torna a far capolino al punto 1.3 di questo stesso articolo. Dove si disciplina la «dichiarazione» di convivenza (e si evince che essa è normalmente «contestuale»), e la si collega all’Anagrafe che da strumento di rilevazione e accertamento diventa presupposto per l’imputazione di una serie di diritti e di doveri che, di seguito, vengono codificati. E a proposito dei quali è inevitabile notare che questo ipotizzato “catalogo” ha una duplice andatura.
Da una parte, si richiama in qualche modo, solennizzandola, una serie di attribuzioni già riconosciute al cittadino che convive da parte delle leggi e dalle corti di giustizia. Dall’altra, si estendono – pur con qualche adattamento – ai conviventi quei diritti circa l’obbligo alimentare, le pensioni e l’eredità che sono non da oggi i capisaldi del diritto familiare, e che non possono essere manomessi senza pesantemente intaccare in pari tempo la specificità dell’apprezzamento per la famiglia riservato non a caso dall’articolo 29 della Costituzione.
Questa sì, diciamolo chiaramente, sarebbe un’innovazione clamorosa, che però stando alle affermazioni verbali non appare giustificata, a meno che non si nasconda qui la vera intenzione para-familiare del provvedimento.
In ogni caso, il rischio è che l’effetto complessivo dell’operazione si attesti anche oltre la codificazione data, e che comunque nell’opinione pubblica si abbia una simile percezione in termini di costume. Quasi che, da oggi in poi, ai nostri giovani si aprano due vie entrambe giuridicamente riconosciute e tutelate per perseguire il proprio progetto di vita. Una, più impegnativa e pubblica, il matrimonio, l’altra – l’unione di fatto – più leggera e privata, ma anche più conveniente e dunque più accattivante. Preoccupanti sarebbero le conseguenze che discendono da una simile impostazione, oggettivamente tesa – secondo schemi già emblematicamente operativi in alcuni Paesi europei – ad attenuare il livello di coesione e ad aumentare il tasso di precarietà di una società frammentata e complessa com’è pure la nostra. Un’insidia soprattutto per i più giovani, e contro i più giovani. Per questo non possiamo non sperare che il Parlamento vorrà ora fare – per intero e con somma libertà – la propria parte, nella consapevolezza che si tratta di difendere non le vestigia del passato, ma il format del nostro futuro.

Editoriale di AVVENIRE del 10 febbraio 2007