Testimonianza dal Kenya

Caro don Massimo,
ti ringrazio per aver chiesto a don Valerio di non lasciarmi solo in questo momento di tensione e di violenza nel paese. È stato un segno di carità nei miei confronti e di responsabilità di fronte alla situazione. Dio ci chiama a stare vicini alla nostra gente, non a fuggire. Quando il lupo si aggira tra le pecore, il pastore deve difenderle. La nostra parrocchia ha reagito in modo esemplare a quello che succede nel paese rispondendo alla nostra proposta di pregare nell’adorazione eucaristica; anche i giovani, che hanno mostrato maturità, vi partecipano.

Caro don Massimo, quando tu chiedi nella tua preghiera che possa nascere una nuova generazione che sia protagonista di un futuro più luminoso, penso ai bambini e ai ragazzi che frequentano le nostre scuole; penso ai giovani della parrocchia, che vivono insieme come fratelli e che spero sapranno costruire una nazione più unita. Penso a John (nome di comodo), cui sono stati uccisi due fratelli e un cugino nella Rift Valley. In certi posti ancora vige l’anarchia e la vendetta. Lui non può fare nulla per salvarli, perché le strade sono bloccate e, se va là, rischia la vita. Può solo pregare e perdonare, come ha fatto sabato quando abbiamo detto la messa a casa sua con la jumuia (una delle tante piccole comunità in cui è articolata la vita della parrocchia). Mi ha impressionato vedere che in lui non c’era una briciola di odio, ma solo dolore, accettazione di quanto gli era accaduto e perdono. I suoi figli ricorderanno per sempre questo esempio del padre e lo imiteranno, se dovesse succedere a loro una cosa simile, Dio ce ne scampi.

La gente della parrocchia in questi giorni viene più numerosa a messa perché capisce che bisogna pregare Dio più intensamente per il dono della pace. In molti si sono dati da fare per raccogliere cibo e vestiario per i rifugiati, in maggioranza Kikuyu scacciati dalle loro case da altre tribù e ora accampati in varie città. Stanno arrivando anche a Nairobi, scaricati da camion. Una signora di Eldoret, con un bambino, è venuta in parrocchia in cerca di aiuto sabato sera; un signore, invece, è giunto da Mombasa ieri mattina.
Dobbiamo essere pronti ad aiutare queste persone. Gli aiuti materiali che raccogliamo, li consegniamo ad agenzie come la Croce Rossa, le uniche autorizzate ad andare in certe zone off limits. Abbiamo aperto questa iniziativa della jumuia St. Peter a tutti i parrocchiani, che hanno risposto generosamente. Anche la diocesi di Nairobi si è mossa ad organizzare gli aiuti agli sfollati.

Nonostante tutto possiamo ancora sperare, come dice il Papa nella sua ultima enciclica, che ho riletto in questi giorni, perché «la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’amore e grazie ad esso hanno per esso un senso e una importanza». La nostra speranza è una certezza, come diceva don Giussani e come dice anche il Papa: la certezza che Cristo ha vinto il mondo e il male, per cui «posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita o per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più niente da sperare». Un abbraccio.

Nairobi, 7 gennaio 2008 – Don Giuliano